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Era una notte buia e tempestosa quella che colpì, nell’anno del Signore 2006, il calcio italiano. Questo, proprio nel periodo in cui la rappresentanza nazionale di quello stesso calcio (ritenuto malato) riusciva finalmente ad alzare il trofeo più importante.

Sono ormai passati esattamente tredici anni dall’estate di “Calciopoli” e lo scenario che ci troviamo davanti è davvero molto differente.

Certo, contrariamente alle aspettative di più di qualcuno, le squadre che dominano ed hanno dominato gli ultimi campionati sono sempre le stesse: quelle con più potere economico.

Anzi, sembra sempre più difficile ipotizzare una ripetizione dei favolosi risultati di Hellas Verona e Sampdoria, giusto per citare gli ultimi in ordine di tempo.

Tuttavia, qualcosa di importante è cambiato: le società di calcio sono sempre più interessate a munirsi di strumenti volti a prevenire quanto successe nel 2006 e, più in generale, la commissione di illeciti, soprattutto penali, nel loro ambito.

Del resto, le squadre di calcio nostrane presentano le peculiarità previste dall’art. 1 D. Lgs. 231/2001 e possono quindi incorrere in una responsabilità da reato, di cui allo stesso Decreto.

A spingere ulteriormente in questa direzione ci sono state poi recentemente alcune importanti riforme: la L. 39/2019 ed il nuovo Codice di Giustizia Sportiva, entrato in vigore lo scorso 12 giugno. Queste riforme, se da un lato, convincono sempre di più le società del nostro calcio a dotarsi di adeguati modelli di organizzazione, gestione e controllo, di cui al D. Lgs. 231/2001, dall’altro lato potrebbero portare, qualora avesse luogo una nuova “Calciopoli”, a risultati differenti da quanto accaduto nel 2006.

 

  1. La L. 39/2019 ed il nuovo art. 25 quaterdecies D. Lgs. 231/2001

Il 17 maggio 2019 è entrata in vigore la L. n. 39/2019 recante “Ratifica ed esecuzione della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla manipolazione di competizioni sportive, fatta a Magglingen il 18 settembre 2014”.

La legge inserisce una nuova categoria di reati tra quelli che costituiscono il presupposto della responsabilità ai sensi del D. Lgs. 231/2001: quelli di frode in competizioni sportive o di scommessa e giochi d’azzardo a mezzo di apparecchi vietati, previsti dagli artt. 1 e 4 della L. 13 dicembre 1989 n. 401.

Il reato di cui all’art. 1 della L. 401/1989 punisce la condotta di chiunque offre o promette denaro o altra utilità o vantaggio a taluno dei partecipanti ad una competizione sportiva organizzata dalle federazioni riconosciute dal Comitato olimpico nazionale italiano (CONI), dall’Unione italiana per l’incremento delle razze equine (UNIRE) o da altri enti sportivi riconosciuti dallo Stato e dalle associazioni ad essi aderenti, al fine di raggiungere un risultato diverso da quello conseguente al corretto e leale svolgimento della competizione.

La predetta fattispecie punisce inoltre il partecipante alla competizione che accetta il denaro o altra utilità o vantaggio, o ne accoglie la promessa.

La pena, con particolare riferimento all’ipotesi in cui il risultato della competizione influenzata dalle condotte sopra descritte sia influente, ai fini dello svolgimento di concorsi pronostici e scommesse regolarmente esercitati, può arrivare fino a nove anni di reclusione, unitamente ad una multa fino ad euro 100.000.

Si tratta di una fattispecie penalistica principalmente rivolta a coloro che svolgono delle attività, principali o secondarie, nell’ambito dello sport: dagli atleti ai dirigenti di enti sportivi.

Con tale disciplina il legislatore, probabilmente a seguito dei noti scandali che avevano caratterizzato lo sport negli anni ottanta, voleva prevenire quelle condotte, rientranti nella categoria della “corruzione”, volte ad influenzare i risultati sportivi, con danno, non solo per i partecipanti alle competizioni, ma anche per coloro i quali partecipavano ai “concorsi” ove le vincite dipendevano dai predetti risultati sportivi, come il totocalcio.

Il reato di cui all’art. 4 L. 401/1989 punisce invece coloro i quali organizzano, promuovono o, semplicemente, partecipano ad attività di gioco o scommessa non autorizzati, quindi “clandestini”.

Questa fattispecie, la cui pena può arrivare sino a sei anni di reclusione unitamente ad una multa fino a euro 50.000,00, punisce sia quelle condotte di gioco e scommessa inerenti le competizioni sportive, così da collegarsi a quelle punite dalla norma precedentemente citata, sia quelle attività “clandestine” di gioco esercitate in violazione di quanto previsto da leggi e regolamenti specifici dell’ambito.

Le fattispecie sopra descritte, come anticipato, sono state inserite dal legislatore nella categoria dei reati presupposto per la responsabilità di cui all’art. D. Lgs. 231/2001, nell’ambito del quale esse vengono richiamate dal nuovo art. 25 quaterdecies.

Quest’ultima norma prevede che, in caso di commissione dei predetti reati sopra richiamati, l’ente nell’ambito del quale essi vengano commessi per il suo interesse o vantaggio da soggetti apicali o subordinati alle decisioni altrui, in caso di riconoscimento della sua responsabilità, possa andare incontro ad una sanzione pecuniaria fino a euro 774.500,00 ed una sanzione interdittiva non inferiore ad un anno.

L’elemento di particolare novità attiene certamente alla inevitabile estensione dei soggetti tenuti all’adozione di un modello di organizzazione, gestione e controllo ed alla istituzione di un Organismo di Vigilanza, così come richiesto dagli artt. 6 e 7 D. Lgs. 231/2001, alla categoria degli enti sportivi.

E’ chiaro che qualunque ente sportivo che presenti la forma giuridica di cui all’art. 1 D. Lgs. 231/2001, anche precedentemente alla riforma in discorso, doveva “munirsi” degli strumenti preventivi del “Modello 231” e dell’Organismo di Vigilanza, per prevenire la commissione dei reati presupposto presenti nel Decreto 231, ove sussistessero dei rischi a tale riguardo.

Tuttavia, la L. 39/2019 rafforza questa necessità e genera l’impellenza per qualunque società sportiva di dotarsi dei predetti strumenti, dal momento che, in caso di illeciti/frodi sportive o scommesse clandestine, non proprio una rarità nel nostro paese, potrebbero ricevere conseguenze dannose ben più incisive rispetto al passato.

 

  1. Il nuovo Codice di Giustizia Sportiva

Lo scorso 12 giugno è entrato in vigore il nuovo Codice di Giustizia Sportiva della Federazione Italiana Giuoco Calcio, approvato con deliberazione n. 258 dell’11 giugno 2019 dalla Giunta Nazionale del C.O.N.I., ai sensi dell’art. 7, comma 5, lett. l) dello Statuto C.O.N.I.

Questa nuova normativa, non diversamente da quella precedente, garantisce il regolare svolgimento delle manifestazioni sportive del calcio italiano attraverso la previsione di specifiche ipotesi di responsabilità e conseguenti sanzioni, qualora vengano commessi illeciti sportivi.

Sono inoltre previste specifiche regole processuali che disciplinano ogni grado della giustizia sportiva, avvicinando sempre più tale modello a quello della giustizia ordinaria. Veniamo a quella che è la principale novità del nuovo Codice.

Esperti o non esperti, soprattutto in ragione della mediaticità dei giudizi che hanno interessato importanti società calcistiche nel 2006, siamo tutti più o meno a conoscenza del fatto la giustizia sportiva può addivenire ad una condanna di una società anche qualora l’illecito sia stato commesso per la mera iniziativa individuale di uno o più dei suoi alti dirigenti.

Per un verdetto particolarmente severo, come una retrocessione o, addirittura, la revoca di un titolo sportivo vinto sul campo, non è infatti necessaria la dimostrazione di una “volontarietà sociale” o, quantomeno, di una rimproverabilità per chi si sarebbe potuto trovare nella possibilità di controllare colui che ha commesso l’illecito e, magari, di impedirne la continuazione.

Tuttavia, l’art. 7 del nuovo Codice potrebbe portare ad un profondo cambiamento di prospettiva.

Tale norma così dispone: “Al fine di escludere o attenuare la responsabilità della società di cui all’art. 6, così come anche prevista e richiamata nel Codice, il giudice valuta la adozione, l’idoneità, l’efficacia e l’effettivo funzionamento del modello di organizzazione, gestione e controllo di cui all’art. 7, comma 5 dello Statuto”.

Può quindi presentare efficacia esimente rispetto alla commissione di illeciti sportivi l’adozione da parte di una società calcistica di un modello di organizzazione, gestione e controllo che presenti le seguenti peculiarità:

– misure idonee a garantire lo svolgimento dell’attività sportiva nel rispetto della legge e dell’ordinamento sportivo, nonché a rilevare tempestivamente situazioni di rischio;

– l’adozione di un codice etico, di specifiche procedure per le fasi decisionali sia di tipo amministrativo che di tipo tecnico-sportivo, nonché di adeguati meccanismi di controllo;

– l’adozione di un incisivo sistema disciplinare interno idoneo a sanzionare il mancato rispetto delle misure indicate nel modello;

– la nomina di un organismo di garanzia, composto da persone di massima indipendenza e professionalità e dotato di autonomi poteri di iniziativa e controllo, incaricato di vigilare sul funzionamento e l’osservanza dei modelli e di curare il loro aggiornamento[1].

Il fatto che il Codice di Giustizia Sportiva sia venuto alla luce quasi contemporaneamente al nuovo art. 25 quaterdecies del D. Lgs. 231/2001 non sembra una coincidenza.

Proprio nel momento in cui l’illecito sportivo, sanzionato dalla Giustizia sportiva e certamente tale da potere integrare il reato di frode sportiva, viene considerato come presupposto per una responsabilità ai sensi del D. Lgs. 231/2001, il nuovo Codice di Giustizia Sportiva, al fine di spingere ulteriormente le società a dotarsi di adeguati strumenti preventivi, apre alla possibilità di un possibile proscioglimento, qualora venga dimostrato che la società abbia “fatto tutto il possibile”, attraverso gli strumenti della compliance 231, per prevenire la commissione dell’illecito.

Le novità del Codice di Giustizia Sportiva però non sono finite.

L’art. 3 comma 3 del Codice così stabilisce: “Fermo restando quanto previsto dall’art. 39 del Codice CONI[2], vi è autonomia dell’ordinamento federale nella qualificazione dei fatti ai fini disciplinari e autonomia degli organi di giustizia sportiva nella definizione dei giudizi, indipendentemente dai procedimenti innanzi alla autorità giudiziaria ordinaria”.

L’Art. 39 del Codice CONI stabilisce, non diversamente che per le altre tipologie di procedimenti, anche presso la magistratura ordinaria, che il Giudicato penale debba avere effetto anche sui giudizi disciplinari attinenti la materia sportiva, per quanto concerne l’accertamento del fatto illecito e l’attribuzione dello stesso a colui il quale sia sottoposto anche allo stesso procedimento disciplinare.

Anche nel Codice di Giustizia Sportiva, come a volere ribadire lo stesso concetto, si riscontra una norma che afferma la prevalenza del giudicato penale anche per la giustizia sportiva: l’art. 111[3].

Una ulteriore disposizione degna di nota nel nuovo Codice di Giustizia sportiva è poi l’art. 129 che, nel disciplinare i rapporti tra gli organi della giustizia sportiva e la magistratura ordinaria, stabilisce l’obbligo di reciproca collaborazione tra di essi, affinché, soprattutto in fase di indagine, possa avere luogo un’attività investigativa e di successiva imputazione coordinata e, nei limiti del possibile, parallela anche a livello temporale[4].

Andiamo al cuore della questione.

Viene da chiedersi come mai la FIGC abbia voluto riportare nel suo nuovo codice i concetti di prevalenza del giudicato penale e di reciproca collaborazione.

Certo, ricollegando il discorso alla novità introdotta dall’art. 7 del Codice di Giustizia Sportiva potrebbe ipotizzarsi una possibile risposta a questo interrogativo.

In particolare, a parere di chi scrive, in caso di notizia di illecito sportivo/frode sportiva, la Procura Federale e la Procura della Repubblica competente dovrebbero collaborare reciprocamente, cercando nei limiti del possibile, di mantenere i procedimenti entro un parallelismo temporale.

In questo modo, al Pubblico Ministero sarebbe demandata la valutazione di effettività ed idoneità del modello organizzativo adottato dalla società calcistica. Tale valutazione dovrebbe quindi essere trasmessa al collega che rappresenta la giustizia sportiva, il quale dovrebbe procedere o archiviare la posizione della società a seconda delle valutazioni dell’esponente della Procura della Repubblica.

Nelle fasi successive dei procedimenti, nell’eventualità che non sia stata disposta l’archiviazione della posizione della predetta società, né sul fronte penale né su quello sportivo, dovrebbe essere quindi la valutazione dell’organo giudicante della Magistratura ordinaria a portare quella sportiva a decidere, in sede di giudizio, per l’applicazione dell’attenuante o esimente di cui all’art. 7 del Codice di Giustizia Sportiva o meno.

Se davvero fosse questa la strada che si percorrerà in futuro, ciò potrebbe comportare un graduale allontanamento della Giustizia sportiva dalla “odiosa” attribuzione di responsabilità per le società sportive pur senza la dimostrazione di una rimproverabilità sotto il profilo soggettivo.

Per quanto l’accertamento di responsabilità ai sensi del D. Lgs. 231/2001 implichi, sul piano soggettivo, un’inversione dell’onere della prova, dovendo essere l’ente a dimostrare la non attribuibilità ad esso dell’illecito commesso, l’importazione, indiretta, di tale sistema nell’ambito della giustizia sportiva potrebbe rappresentare una vera e propria rivoluzione!

Viene allora da chiedersi come potrebbero andare le cose se si verificasse una nuova “Calciopoli”.

 

  1. Il possibile esito di una nuova “Calciopoli”

Possiamo provare ad ipotizzare cosa potrebbe succedere se si verificasse in questo periodo una nuova “Calciopoli”.

Ipotizziamo che un esponente di una società calcistica, in posizione apicale come potrebbe essere un dirigente, o sottoposto all’altrui direzione come ad esempio un allenatore o un calciatore, si accordi con soggetti operanti in un’altra squadra o, addirittura, con la classe arbitrale per ottenere dei risultati sportivi che possano influenzare, in favore della squadra di provenienza, l’esito di un campionato.

Ipotizziamo però che la società calcistica, messa nei guai dal proprio esponente, sia munita di un modello di organizzazione, gestione e controllo, ai sensi del D. Lgs. 231/2001, nonché di un autonomo Organismo di Vigilanza deputato al controllo delle attività societarie, al fine di valutare la sussistenza di rischi di illecito e di suggerire ai vertici dell’ente le misure volte a ridurre tali rischi.

La notizia dell’illecito, in ragione del dovere di reciproca collaborazione tra organi della giustizia sportiva e della magistratura, dovrebbe comportare che le indagini delle rispettive procure abbiano inizio quasi contemporaneamente e, comunque, procedano, almeno inizialmente, di pari passo.

Sarebbe quindi ipotizzabile che il Pubblico Ministero incaricato per le indagini volte all’accertamento della fondatezza della notizia del reato di frode sportiva, al fine di valutare la responsabilità della società ai sensi dell’art. 25 quaterdecies D. Lgs. 231/2001, proceda ad esaminare il modello organizzativo precedentemente adottato dalla società.

Qualora il Pubblico Ministero, nel corso delle proprie indagini, giungesse alla conclusione che il modello sia efficace e che il reato sia stato commesso attraverso l’elusione fraudolenta dello stesso, la posizione della società calcistica rispetto ad un procedimento penale, per la valutazione della sua responsabilità ai sensi del D. Lgs. 231/2001, verrebbe archiviata.

In questo caso, a parere di chi scrive, il Procuratore Federale incaricato di svolgere le indagini per l’illecito sportivo, che dovrebbe attendere la valutazione del collega della Magistratura ordinaria, con molta probabilità giungerebbe ad una analoga valutazione di irresponsabilità della società.

Se invece il Pubblico Ministero incaricato delle indagini penali volesse procedere nei confronti della società calcistica, con successiva prosecuzione del procedimento penale e instaurazione dell’istruttoria dibattimentale, è probabile che le strade della giustizia sportiva e di quella ordinaria si dividerebbero, richiedendo quest’ultima dei tempi più lunghi. In questo caso l’incisività di quanto disposto dall’art. 7 del Codice di Giustizia Sportiva risulterebbe minore.

Un esito diverso potrebbe aversi in quelle ipotesi in cui le indagini della Procura Federale abbiano inizio quando il procedimento penale sia già in una fase avanzata e prossima alla sentenza.

In questo caso, qualora il tribunale ordinario ritenga la società non responsabile ai sensi dell’art. 25 quaterdecies D. Lgs. 231/2001, la giustizia sportiva potrebbe esserne inevitabilmente influenzata, tornando prepotentemente in voga l’art. 7 del Codice di Giustizia Sportiva.

Il vantaggio di una situazione come quella prospettata, si ribadisce, potrebbe essere il fatto che, finalmente, le società calcistiche potrebbero essere giudicate con criteri richiedenti un minimo coefficiente soggettivo.

Ovviamente, quanto fin qui prospettato attiene all’ipotesi in cui la società venga ritenuta non responsabile dell’illecito sportivo nonché all’interessante intreccio di norme degli ordinamenti penale e sportivo in questa situazione.

E’ però altrettanto interessante valutare cosa potrebbe succedere qualora la società calcistica venga ritenuta responsabile ai sensi dell’art. 25 quaterdecies D. Lgs. 231/2001.

Come sopra osservato, qualora il procedimento penale nei confronti della società prosegua al termine delle indagini preliminari, pare difficile che ci possa essere un andamento parallelo tra giustizia ordinaria e giustizia sportiva.

E’ quindi probabile che, ove non fosse stato adottato dalla società imputata un adeguato modello organizzativo ritenuto tale da prevenire gli illeciti commessi, la giustizia sportiva emetterebbe per prima un verdetto sanzionatorio, magari con una retrocessione, come accadde nel 2006.

A questo punto, però, bisogna interrogarsi su quali potrebbero essere gli ulteriori effetti di una condanna penale, ai sensi dell’art. 25 quaterdecies D. Lgs. 231/2001, intervenuta successivamente.

Come già riportato, tale illecito può comportare una sanzione pecuniaria fino ad euro 774.500,00 ed una sanzione interdittiva non inferiore ad un anno.

Poniamo che la condanna sia esattamente questa.

La sanzione pecuniaria potrebbe incidere notevolmente sui bilanci di una società calcistica qualora questa partecipi a campionati minori. Per una società di serie A o B questa somma potrebbe essere irrisoria.

Il problema è allora la sanzione interdittiva.

Ai sensi dell’art. 9 comma 2 D. Lgs. 231/2001 le sanzioni interdittive che possono conseguire ad una condanna sono: (i) interdizione dall’esercizio dell’attività svolta dalla società; (ii) la sospensione o la revoca delle autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali alla commissione dell’illecito; (iii) il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, salvo che per ottenere le prestazioni di un pubblico servizio; (iv) l’esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi e l’eventuale revoca di quelli già concessi; (v) il divieto di pubblicizzare beni o servizi.

Si tratta di sanzioni che sono tutte abbastanza dannose.

Certo, la prima, quella della sospensione dall’attività svolta dalla società, è la più grave.

Una società alla quale venga impedito per un anno di svolgere l’attività di cui al proprio oggetto sociale potrebbe fallire. Così potrebbe essere anche per una società calcistica.

In questo caso, però, occorrerebbe integrare ciò con la regolamentazione sportiva.

Se una società calcistica non può esercitare la propria attività, ovvero partecipare ai campionati, questo significa che non può neanche iscriversi ad essi.

Questo potrebbe inevitabilmente comportare che la società, magari già retrocessa nella serie inferiore all’esito del procedimento tenuto dalla Giustizia Sportiva, potrebbe ritrovarsi, alla luce delle regole attuali in materia, dopo avere scontato la sanzione interdittiva, a ricominciare dalla serie D!

L’art 52 comma 10 del N.O.I.F.[5], infatti, così stabilisce: “In caso di non ammissione al campionato di Serie A, Serie B e di Serie C il Presidente Federale, d’intesa con il Presidente della LND, previo parere della Commissione all’uopo istituita, potrà consentire alla città della società non ammessa di partecipare con una propria società ad un Campionato della LND, anche in soprannumero, purché la stessa società:

  1. a) adempia alle prescrizioni previste dal singolo Comitato per l’iscrizione al Campionato;
  2. b) non abbia soci e/o amministratori che abbiano ricoperto, negli ultimi 5 anni, il ruolo di socio, di amministratore e/o di dirigente con poteri di rappresentanza nell’ambito federale, in società destinatarie di provvedimenti di esclusione dal campionato di competenza o di revoca dell’affiliazione dalla FIGC”.
  3. In conclusione

E’ sempre difficile valutare la bontà di una riforma legislativa.

Da un lato il nuovo art. 25 quaterdecies D. Lgs. 231/2001 dovrebbe spingere le nostre società calcistiche a munirsi, ove non lo abbiano già fatto, di adeguati strumenti preventivi, con beneficio del nostro calcio, anche rispetto alla prevenzione di tutti gli altri reati che costituiscono il presupposto di una responsabilità ai sensi del Decreto 231.

Inoltre, una società calcistica colpita da uno scandalo come quello di “Calciopoli”, ove venga dimostrata l’estraneità della stessa rispetto alle azioni illecite dei propri esponenti, attraverso la positiva valutazione degli strumenti preventivi adottati, potrebbe “salvarsi” da sanzioni fortemente dannose, come la retrocessione in una serie minore o, addirittura, la revoca del titolo vinto sul campo.

Questo potrebbe essere il risultato di una interessante collaborazione tra giustizia sportiva e giustizia ordinaria, con conseguente “oscuramento” del meccanismo di attribuzione di responsabilità basato solo su elementi oggettivi tradizionalmente adottato dalla prima.

Dall’altro lato, però, le conseguenze di un riconoscimento di responsabilità ai sensi dell’art. 25 quaterdecies D. Lgs. 231/2001 potrebbero essere molto più gravi di quanto avvenuto nel 2006.

Al di là degli esiti della giustizia sportiva, notoriamente più veloce, una sentenza di condanna ai sensi dell’art. 25 quaterdecies D. Lgs. 231/2001, emessa all’esito di un procedimento penale a cui una società calcistica sia sottoposta, potrebbe cancellare anni di gloriosa storia, obbligando anche grandi squadre, come quelle che anche attualmente dominano la scena italiana, a ripartire dalla Lega Nazionale Dilettanti.

A parere di chi scrive, forse, le conseguenze di un riconoscimento di responsabilità in caso di illecito sportivo/frode sportiva sono troppo severe. Se una squadra “imbroglia” per vincere un titolo o qualificarsi ad una competizione ritengo sia già sufficientemente punitivo e rieducativo revocare i risultati raggiunti non onestamente e, magari, retrocedere la squadra in una serie minore[6].

Tuttavia, se bisogna pagare il prezzo di sanzioni più severe per avere l’opportunità di una valutazione di responsabilità caratterizzata da più garanzie e con la necessità della dimostrazione di un minimo coefficiente soggettivo in capo alla società calcistica, allora “Parigi val bene una messa”.

 

Così, se una delle “big” del nostro calcio dovesse all’improvviso trovarsi in una situazione in cui i soci di maggioranza vengano meno, per il normale corso della natura, e sussista un improvviso vuoto di potere e, soprattutto, di controllo nell’ambito dell’assemblea dei soci, tale da portare i vertici amministrativi ad esercitare un potere incontrastabile, anche se utilizzato per attività illecite come la frode sportiva, chissà quanto realmente a vantaggio della stessa società, forse, con le ultime riforme, non è detto che la conseguenza di tutto questo sarebbe il riconoscimento di responsabilità in capo alla società, con relative drammatiche sanzioni.

[1] Queste sono le peculiarità che il modello organizzativo deve avere, secondo quanto disposto dall’art. 7 comma 5 dello statuto della FIGC.

[2] La norma citata così stabilisce: “Art. 39 – Efficacia della sentenza dell’autorità giudiziaria nei giudizi disciplinari 

  1. Davanti agli organi di giustizia la sentenza penale irrevocabile di condanna, anche quando non pronunciata in seguito a dibattimento, ha efficacia di giudicato nel giudizio disciplinare quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e dell’affermazione che l’imputato lo ha commesso. 
  2. La stessa efficacia ha la sentenza irrevocabile di applicazione della pena su richiesta delle parti. 
  3. La sentenza penale irrevocabile di assoluzione, pronunciata in seguito a dibattimento, ha efficacia di giudicato nel giudizio disciplinare nei confronti dell’imputato quanto all’accertamento che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso, ferma restando l’autonoma dell’ordinamento sportivo nella definizione della fattispecie e nella qualificazione del fatto. 
  4. L’efficacia di cui ai commi 1 e 3 si estende agli altri giudizi in cui si controverte intorno a illeciti il cui accertamento dipende da quello degli stessi fatti materiali che sono stati oggetto del giudizio penale, purché i fatti accertati siano stati ritenuti rilevanti ai fini della decisione penale nei confronti dell’incolpato. 
  5. In ogni caso hanno efficacia nei giudizi disciplinari le sentenze non più impugnabili che rigettano la querela di falso o accertano la falsità di un documento ovvero che pronunciano sull’istanza di verificazione. 
  6. Fuori dei limiti di cui ai precedenti commi, gli organi di giustizia non sono soggetti all’autorità di altra sentenza, che non costituisca cosa giudicata tra le stesse parti; essi conoscono di ogni questione pregiudiziale o incidentale, pur quando riservata per legge all’Autorità giudiziaria, la cui risoluzione sia rilevante per pronunciare sull’oggetto della domanda, incluse le questioni relative alla capacità di stare in giudizio e all’incidente di falso. 
  7. In nessun caso è ammessa la sospensione del procedimento salvo che, per legge, debba essere decisa con efficacia di giudicato una questione pregiudiziale di merito e la relativa causa sia stata già proposta davanti all’Autorità giudiziaria”.

 

[3] Art. 111 Codice di Giustizia Sportiva: “Efficacia della sentenza dell’autorità giudiziaria nei giudizi disciplinari”

“1. Davanti agli organi di giustizia la sentenza penale irrevocabile di condanna, anche quando non pronunciata in seguito a dibattimento, ha efficacia di giudicato nel giudizio disciplinare quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e dell’affermazione che l’imputato lo ha commesso.

  1. La stessa efficacia ha la sentenza irrevocabile di applicazione della pena su richiesta delle parti.
  2. La sentenza penale irrevocabile di assoluzione, pronunciata in seguito a dibattimento, ha efficacia di giudicato nel giudizio disciplinare nei confronti dell’imputato quanto all’accertamento che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso, ferma restando l’autonomia dell’ordinamento sportivo nella definizione della fattispecie e nella qualificazione del fatto.
  3. L’efficacia di cui ai commi 1 e 3 si estende agli altri giudizi in cui si controverte intorno a illeciti il cui accertamento dipende da quello degli stessi fatti materiali che sono stati oggetto del giudizio penale, purché i fatti accertati siano stati ritenuti rilevanti ai fini della decisione penale nei confronti dell’incolpato.
  4. In ogni caso, hanno efficacia nei giudizi disciplinari le sentenze non più impugnabili che rigettano la querela di falso o accertano la falsità di un documento ovvero che pronunciano sull’istanza di verificazione.
  5. Fuori dei limiti di cui ai precedenti commi, gli organi di giustizia non sono soggetti all’autorità di altra sentenza che non costituisca cosa giudicata tra le stesse parti; essi conoscono di ogni questione pregiudiziale o incidentale, pur quando riservata per legge all’Autorità giudiziaria, la cui risoluzione sia rilevante per pronunciare sull’oggetto della domanda.
  6. In nessun caso è ammessa la sospensione del procedimento salvo che, per legge, debba essere decisa con efficacia di giudicato una questione pregiudiziale di merito e la relativa causa sia stata già proposta davanti all’Autorità giudiziaria”.

[4] Art. 129 Codice di Giustizia Sportiva “Rapporti con l’Autorità giudiziaria”

“Il Procuratore federale, se durante le indagini prende notizia di fatti rilevanti anche per l’Ufficio del Pubblico ministero, trasmette senza indugio copia degli atti al Presidente federale affinché questi informi l’Autorità giudiziaria competente ovvero vi provvede direttamente.

Qualora la Procura della Repubblica trasmetta risultanze del procedimento penale al Procuratore federale, gli atti e documenti trasmessi sono da lui tenuti nel debito riserbo consentito da ciascuna fase del procedimento.

Qualora il Procuratore federale ritenga che, presso l’Ufficio del Pubblico ministero ovvero altre autorità giudiziarie dello Stato, siano stati formati atti o raccolti documenti rilevanti per lo svolgimento delle proprie attribuzioni, ne richiede l’acquisizione direttamente o per il tramite della Procura generale dello sport.

La Procura generale dello sport può comunque richiedere l’acquisizione di detti atti o documenti per l’esercizio delle specifiche attribuzioni del Codice CONI. In caso di accoglimento della richiesta, il Procuratore generale dello sport trasmette copia degli atti e dei documenti ricevuti al Procuratore federale”.

 

[5] Norme organizzative Interne F. I. G. C.

[6] Come tradizionalmente avvenuto.

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